Odissea estetica di un romantico
di Alessandra Redaelli

Marco Lugli è (anche) scrittore. Il suo romanzo d’esordio, L’uomo tatuato, odissea erotica di un mutante, uscito nel 2005, racconta la rocambolesca educazione sentimentale di un giovane cui le avventure sessuali – spesso brutali e torbide – rimangono incise sulla pelle come tatuaggi. Un romanzo di formazione che al di là delle facili letture vuole indagare l’incomunicabilità tra i sessi, l’incapacità di utilizzare – spesso anche a letto, ahimè – linguaggi compatibili e che rivela il temperamento fondamentalmente romantico dell’autore. I titoli delle sue fotografie lo confermano. Comunque ti guardi non mi sembri in pace, L’arte perduta della conversazione, Non voglio ciò che ho, La vergogna e il peso del cammino percorso, L’offerta della mangiatrice di sé, Esercizi di resurrezione sono altrettanti pezzi di emozioni vissute, sofferte. Passi di un procedere faticoso verso una comunione che appare inarrivabile.

Nei lavori di Marco la donna è guardata attraverso una lente che da un lato la pone a distanza – oggetto d’attrazione ma in qualche modo incomprensibile – e dall’altro sembra penetrarne le profondità fino al pompare del cuore, all’anima, ai pensieri più privati e inconfessabili. La visione di quel “dentro” è come un’epifania. Ed è questa consapevolezza che fa sì che le donne di Marco subiscano quel suo fare artistico crudele, quell’accanirsi contro il corpo. Per lui la bellezza ha un valore, certo. Proporzioni classiche e avvenenza moderna contraddistinguono i suoi soggetti. Anche quando il protagonista è lui stesso, quel corpo parla di un uomo che ha cura di sé, di un fisico coltivato come un tempio. Poi, però, tutta questa perfezione a Marco non basta. Non può bastare. Perché lui conosce quello che c’è al di là. Nel bene e nel male. Il fascino e l’orrore. Ecco la chiave della sua tecnica. Il suo eleggere a base la lastra di ferro zincata e poi il suo tormentarla, corroderla con gli acidi per provocarvi ferite indelebili. E’ su quella lastra che stampa i corpi delle sue donne, facendo in modo che la corrosione si contagi alla pelle come l’esantema di un’infezione. Perché la verità del corpo è dentro, nascosta, occultata. E’ il brulicare dei pensieri, lo stratificarsi delle esperienze. Sono le cicatrici lasciate dagli eventi e dal passare del tempo. La vita, insomma, nel suo cammino inesorabile. E quella vita l’artista racconta nelle ferite deturpanti, nelle macchie che contagiano l’epidermide attraverso la corrosione del supporto. E’ questo il discorso sussurrato dalle crepe, dalla ruggine, dalle asperità.

Pezzi unici, costruiti sempre con un margine di aleatorietà che lo intriga e che lui definisce “caos controllato”, i lavori di Marco sono difficilmente classificabili, perché pur essendo a tutti gli effetti fotografie hanno per molti versi l’impatto visivo e il sapore della pittura. Sensazione che lui enfatizza intervenendo spesso, alla fine, con il pennello. A volte il supporto che sceglie è la pellicola di alluminio, ottenendo effetti materici di rugosità da frammento di affresco antico. Altre volte ancora il supporto sono strisce di nastro isolante che si affiancano o si incrociano in una sorta di tessitura. Allora l’immagine si fa trasparente. Il corpo – o magari i suoi dettagli deformati dallo scorcio violento dell’inquadratura – diventa pretesto per una studiata scansione di spazi e di equilibri. Per un sofisticato gioco astratto.